L’occupazione di persone straniere in Italia
L’occupazione di persone straniere in Italia è in linea con quella europea e non si discosta molto dal dato relativo ai nativi. “Il problema è che spesso i migranti fanno i lavori più pericolosi e dannosi per la salute”, indica Mattia Vitiello, ricercatore del Cnr. Il nostro Paese ha un record negativo: solo un immigrato su otto svolge lavori altamenti qualificati
L’integrazione delle persone straniere? Non può prescindere da un lavoro degno. “Sul lavoro, fondamento della nostra Repubblica, si costruisce anche la cittadinanza di quanti iniziano in Italia una vita nuova, per scelta o per necessità. Il lavoro è una leva di integrazione che non si limita all’emancipazione socio-economica, ma investe una dimensione più personale, e per questo totalizzante, fatta di relazioni, confronto, condivisione di difficoltà e successi, senso di appartenenza”. Inizia così il nono Rapporto governativo annuale Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia a cura della Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione, uscito a luglio 2019 e disponibile sul web.
È un inizio che va diritto al cuore del tema: l’inserimento lavorativo dei migranti – richiedenti asilo e rifugiati compresi – è fondamentale per la coesione sociale di ogni nazione del mondo. Tutte le nazioni: quelle a forte saldo immigratorio, ma anche quelle come l’Italia, che nel 2018 ha avuto più emigrati che immigrati (forse per qualcuno è una sorpresa ma di fatto è invece un trend negli ultimi anni) e che oggi, a natalità quasi nulla e con un tasso di anzianità tra i più alti del mondo, si deve interrogare più che mai sul proprio futuro.
Quantifichiamo il fenomeno, prima di entrare nelle dinamiche lavorative: quanti sono i migranti in Italia e, allargando un po’ la lente, negli altri Paesi europei? In Italia su dati ufficiali (lo stesso rapporto citato poc’anzi, per esempio) relativi al 2018 la quota è 5,4 milioni, l’8,5% della popolazione, che arriva al 9% con la stima di 600mila persone senza permesso in regola. Di questi 5,4 milioni, quasi la metà sono stranieri comunitari, ovvero provenienti da altre nazioni Ue. Il nostro Paese è all’undicesimo posto tra gli Stati europei per presenza migratoria: la prima è la Svizzera con il 25% – un abitante su quattro – seguita da Austria (15,7%), Belgio e Irlanda (entrambe al 12%), Germania (11,7%) e vicina ai dati di Spagna (9,8%), Regno Unito (9,5%), Danimarca e Svezia (entrambe all’8,8%), mentre la Francia è più sotto, al 7%, superata dalla Grecia con il 7,6%. Attenzione: stiamo parlando di migranti in generale, se guardiamo ai dati sui rifugiati, titolari di protezione internazionale, essi sono una parte molto limitata del totale: in Italia, per esempio, sono attorno alle 150mila unità, quindi meno dello 0,3% (tre su mille), che arriva allo 0,4% contando anche i richiedenti asilo in attesa di risposta alla propria domanda.
Quanti sono, invece, i migranti che lavorano, e quanti i disoccupati? In quasi tutta l’Europa, l’occupazione dei migranti è in linea con quella degli autoctoni. “In Italia è di poco superiore”, indica Mattia Vitiello, ricercatore del Cnr e autore di numerose pubblicazioni sul rapporto tra migrazioni e lavoro. “La ragione principale è la più naturale: sono costretti a lavorare per non vedere fallito il proprio sogno migratorio e quindi sono disposti a fare anche i lavori meno qualificati e più pesanti, in particolare le prime generazioni”. In Europa, a fronte di un’occupazione media del 65% di chi è nato nella nazione in cui vive, è al 63% la quota di migranti che lavorano, tra essi i rifugiati con più istruzione (mentre crolla a meno del 30% per i titolari di protezione che non hanno imparato a sufficienza la lingua del Paese ospitante, fonte: Rapporto Labour market performance of refugees in Eu).